Io scelgo tutto

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(Testo per la mostra ‘Sulle ali della farfalla’,  Biblioteca Vallicelliana, Roma, 2018-2019)

La pittura non esige commenti, e forse nemmeno titoli, perché è stata la forma primordiale della scrittura. 

In sanscrito, come scrive Charles Malamoud, anche la traccia degli insetti e dei vermi su di una superficie è scrittura (ghuna). Allora anche le ali delle farfalle, o le valve delle conchiglie, sono testi che la monaca pittura ricopia senza interpretare.

Ho praticato una pittura della naturalezza, dell’immediatezza, di una possibile libertà (senza pentimenti).

Il  visibile è  come un’ebbrezza di pollini per un’ape: si diffonde nei colori delle carte come se  questa, tra le mille esplicite, fosse la sua recondita destinazione.

Perché non eseguire Poussin, giorno per giorno, come si farebbe con una partitura al pianoforte, servendosi di una tecnica veloce e immediata: l’inchiostro sumi?

Il disegno come strategia di avvicinamento a oggetti sigillati in un silenzio millenario e prolifici di presenza come nessun altro: le Battriane fasciate di pietra……

La pittura è dunque la prova di una misteriosa contiguità simbolica tra la l’essere umano e la natura che lo comprende. Forse per questo costantemente essa ci ricollega alla preistoria e all’infanzia.

Significante che rimanda solo a se stesso, essa è un’evidenza che contiene il punto nascosto della sua origine. Qui si dirige lo sguardo e si innesta l’irreparabile trasmissione.

Trascrizione da un taccuino:

Carlo Levi in Paura della pittura (1942) evoca la contemplazione di un Narciso angosciato dalle acque della nascita”,  in un vocativo sconsolato alla pittura del nostro secolo, anticipatrice  dei tempi, finita coi tempi maturi, specchio divinatorio della crisi del mondo e dell’uomo, l’oracolo, misterioso, nella sua semplice chiarezza, di un pericolo mortale.

Il suo occhio di pittore veggente, come quel Narciso da cui secondo Alberti era nata la pittura perché qui il mito rivela l’equivoca potenza dell’immagine, contempla la pittura come avrebbe potuto essere,  come ha cessato di essere e come ancora potrebbe essere: il senso dell’esistenza come creazione dell’identità dell’uomo col mondo, di ogni relazione come atto d’amore, fa di ogni segno, pittura. La libertà crea e suppone le passioni umane: la vita è come un albero turgido di succhi, ricca di una pienezza felice dove soltanto vi è posto, senza contraddizione, anche per il dolore, l’angoscia e la morte. L’individuo è opera d’arte: luogo di tutti i possibili rapporti, non ha dunque limiti se non infiniti.  Ma per l’individuo limitato, e perciò incapace e timoroso di esistenza e di libertà, non esistono passioni, e il mondo diventa estraneo. La pittura poteva essere parola che lega invece di essere parola che indaga e procura difesa e certezza, espressione creatrice e non magia, che è lo strumento di un’impossibile salute. Perché la pittura non è magia, ma salute. Non paura, ma libertà.

La paura del deserto dell’anima desolata è il senso della pittura contemporanea: i suoi oggetti non uomini e cose viventi, ma idoli.  La tentazione idolatrica è infatti indice di paura e quindi assenza di libertà.  La fine della pittura coincide con la caduta nelle tenebre della confusione mentale, dove le trappole del potere hanno più facile presa. E l’ombra non sarà più modello cavo delle forme viventi, né dramma di passione, né materna, femminile carezza, ma oscurità dove nascondere il nostro terrore.

La pittura è fonte di concretezza: la sua perdita coincide col dissolvimento del mondo umano: e il colore si staccherà dalle forme e ognuno degli indissolubili elementi dell’espressione pittorica si isolerà e perderà i legami con gli altri, e diventerà esso stesso oggetto di incomprensibile spavento: e la ragione farà strada separata dal senso; e i passaggi dall’uno all’altro momento diventeranno meccanici, simbolici. Per gli uomini, ombra spaventevole il mondo, da cui sono assenti, perde ogni concretezza, cioè ogni connessione simpatica, e diventa un mondo d’ombre e di spavento, un mondo senza relazione, un mondo astratto. L’arte astratta è l’arte dell’individuo astratto, l’arte della massa. Sia che ci si butti a un astratto obiettivismo, sia a un astratto intellettualismo, per la pittura moderna, come per il re Mida, tutto diventa oro.

Qui Carlo Levi vede ciò doveva davvero accadere. Col suo richiamo al mito greco, al pari di Poussin convinto che la pittura avesse una indistruttibile sostanza etica, egli scorge nella fascinazione per la ricchezza il limite negativo e l’indice di ogni sterile ottusità e angustia. Sempre di perdita di libertà si tratta: il terrore della libertà ci fa estranei al mondo, e lo popola di mostri. Se l’individuo creatore non ha limiti fissi, le ‘ombres peureuses’ cercano invece nei limiti la sola possibile difesa dalla sconfinata solitudine; e adorano ogni limite, sola certezza a chi è privo di ogni sostegno. Quando la pittura, e poi la sua generalizzazione in ‘Arte’,  ha ceduto alla “domanda ingorda” dell’atto di magia prodotto dalla nuova religione del denaro – la stessa in cui è cascato Mida “per la qual sempre convien che si rida”(Purg. XX,107-108) – ha dato corpo non al mondo umano, ma ai suoi idoli. Lasciare che il mondo visibile diventi impunemente estraneo significa rinunciarvi: estranei al mondo ci rifugiamo nei sogni, come sola cosa reale; ma i sogni ci riflettono un’immagine altrettanto estranea, come siamo noi a noi stessi.

Abbandonare la pittura, che collega incessantemente ogni essere umano tanto alla preistoria che alla sua personale preistoria,  per paura della libertà dagli idoli che essa esige significa interrompere il processo di antropogenesi che essa aveva inaugurato.