Nico Stringa

Pubblicato il

Nico Stringa

 

Secondo una versione apocrifa del libro della Genesi, Jahvè, dopo aver cacciato Adamo ed Eva dall’Eden, si ritrovò in una tale solitudine che si pentì di quello che aveva fatto e provò inutilmente a convincere i progenitori a tornare nel Paradiso (nel Giardino) dove erano stati collocati e dove per un breve tempo (alcune ore) avevano sperimentato la felicità. Al dolore per la separazione da un paesaggio incontaminato e perfetto si sostituì nella coppia originaria il piacere dovuto alla conoscenza erotica e alla possibilità di costruire un ambiente in evoluzione, non perfetto ma riconoscibile quale risultato del loro lavoro nella natura. Sempre secondo questa versione (altrettanto inattendibile di quella celeberrima, dunque altrettanto veritiera anche se meno nota) il Paradiso Terrestre subì una progressiva degradazione, abbandonato da Dio e dagli Uomini e trascurato dalla Luce.
Non so se Monica Ferrando si sia riferita direttamente proprio a questa antica narrazione, nel ciclo di dipinti qui esposto per la prima volta e intitolato complessivamente Paesaggio perduto; né è da escludere che nella sua pittura attuale vi sia l’eco del Paradiso perduto di Milton, un accostamento che viene suggerito dalla analogia profonda che ricorre nel rapporto Paradiso-Paesaggio. Fatto sta, comunque, che la Ferrando pittrice – già impegnata in precedenza in dipinti di ‘paesaggio con figure’ dall’inconfondibile sapore arca(d)izzante – sembra qui orientata a pensare a due possibilità topiche che si collocano pertanto o all’Inizio o alla Fine del ‘paesaggio’. Le scene che ci troviamo di fronte osservando i cinque dipinti del ciclo sono infatti del tutto sgombre da presenze umane e sono connotate da una costante oscurità che sembra soverchiare i tratti luminosi che serpeggiano inquieti. Impossibile decidere se la luce stia dando i suoi ultimi segnali di vita, prima di sprofondare nell’abisso della notte, o se si tratti invece dei primi lampi che riusciranno a sconfiggere definitivamente le tenebre che la circondano. Questa voluta ambiguità ci permette di collocare la pittura odierna dell’artista nell’ambito del Sublime, la modalità di esprimere il rapporto con la natura nei termini della più alta drammaticità e nel contempo nel registro della liricità. In Italia non abbiamo avuto, tra ‘700 e ‘800 né in seguito, pittori impegnati in quest’ordine di idee, mentre è nella cultura filosofica e visiva tedesca e inglese che sono stati raggiunti gli esiti maggiori, com’è noto. Ma, è appena il caso di accennarvi, proprio duecento anni fa, nel 1819, veniva scritto l’Infinito da Giacomo Leopardi (quindici endecasillabi sciolti) dove troviamo l’incarnazione del Sublime in letteratura. Era ora, direi, che un artista italiano (ma dobbiamo aggiungere, data la struttura della nostra lingua: una artista italiana!) si cimentasse sul crinale di un’esperienza così perentoria e assoluta quale diventa quella del ‘paesaggio’ una volta che esso sia inteso non in termini semplicemente esperienziali ma di conoscenza.
Perciò si può dire, credo, che è sì un paesaggio perduto, ma comunque interrogato, quello sul quale Monica Ferrando ha orientato la sua e ora anche la nostra attenzione. Ovvio che, impostando il suo lavoro nei termini inediti della domanda, le opere dipinte dall’artista possano e forse debbano essere accostate e valutate in termini diversi da come si giudica di consueto il “paesaggismo”. Non di paesaggismo si tratta infatti qui, ma di metafisica della natura; di stabilire cioè se sia il paesaggio a sollecitare la pittura o al contrario se compito del dipingere sia quello di chiamarlo ad apparire, di sottrarlo al non-essere a cui è condannato non tanto e non solo dalla civilizzazione antropizzante ma piuttosto dall’assenza di pensiero.
Per questa occasione sarà sufficiente aver posto in termini generali la questione che l’artista suggerisce mediante dipinti così necessariamente ‘oscuri’.