Francesco Bartoli

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Paesaggio e figura sono a prima vista i termini esclusivi entro i quali Monica Ferrando tesse l’ordito dei segni. Ma quali segni? In realtà il colore pulsa e respira autonomamente, ha una propria vita ancor prima di calarsi nelle determinazioni delle forme. Una sorta di radioso pulviscolo, una espansiva effusione cromatica occupa le superfici e le intride di minutissime scaglie, tratti, coaguli puntiformi; e se talvolta si assesta in più ampi spessori, si tratta sempre di stesure aeree, fluide, legate a un principio di vibrazione. Poi s’indovina un cambio, un salto di stato in questo scintillio capace di splendere per sé solo e che pure non si assolutizza e non ama chiudersi nella propria perfezione. Illuminando il fondo e interpellando l’oscuro, promuove apparizioni di natura, fa trasparire icone e mobili vicende d’immagini.

Col sapore degli inizi di un ritrovato favoloso primordio, il paesaggio convoca aurore e culmini stagionali, ma anche attese e passaggi. Fiorisce sfericamente e si dilata in sequenze, “chiama” e vuol essere abitato,talora pregno  come un alveo materno e altre volte più raccolto, circoscritto in brevi spazi meditativi. Accanto al respiro vegetale, sprigiona aliti, profumi, linfe e spiriti d’elementi, e, quasi da un nucleo vivente si generassero altre vite, pare di assistere a una catena di nascite. La fantasia del giardino insegue figure, non gli “horti” nostalgici delle epoche dell’esilio, bensì luoghi aperti e senza vincoli difensivi, inclini alle trasformazioni. Le acque corrono libere e una fanciulla, anzi la Fanciulla protagonista delle visioni, le attraversa senza arrestarsi. E qui, nello spazio dell’apparire, scandisce una serie di passi lasciando intravedere una temporalità che probabilmente ha a che fare col sapere del ciclo. Sullo sfondo estivo del paesaggio una figura in nero precede infatti la “Kore”, e altrove, nella versione “invernale” dell’immagine, assistiamo alla promessa del melograno; insomma ombra e luce si alleano per alimentare di un doppio tragitto e di una fecondate ambivalenza la virtù dei colori.

Ed è questo il senso, se si vuole antico e irrinunciabile, con cui si fa valere il “dono” della pittura, il circolare movimento che, partendo dall’ombra e tornando ad essa, crea le immagini e, per dir meglio, spontanei miti.

 

In:   Monica Ferrando – Paesaggi e figure, Galleria Montepulcianoarte, aprile 1992