Fabula animale

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Il titolo di questa mostra ci invita a essere attivi con gli occhi e con la mente, a muoverci tra le opere esposte e cogliere la tenue presenza non già di fili invisibili, destinati a produrre reti e ragnatele, ma di voli imprevedibili capaci di dare e ricevere. Essi in realtà provengono da una pulviscolare profondità, densa e magmatica; niente di lineare, ordinatamente statico e archiviato quanto, piuttosto, qualcosa di simile all’aria coi suoi venti, o all’oceano che, pur attraversato da mille correnti metamorfiche per lo più ignote, resta un’interiorità infinita e sommersa, simile a quella in cui abitano, volenti o nolenti, gli artisti. Chiamiamola ‘Tradizione’, sfidando la gabbia binaria, storico-istituzionale, di accademico/antiaccademico in cui questa parola è stata imprigionata; e anche rimuovendo il filo spinato ideologico, o la teca di cristallo, in cui è stata messa al sicuro. Forse perché il contatto costante e vitale con ciò che non si può controllare nello spazio, ma soprattutto nel tempo, comunque testimoniato da pittori e scultori dalla preistoria fino a oggi, poteva dare un qualche fastidio. Ingarbugliava quella traiettoria lineare che rende le cose più facili da guidare e tenere sotto controllo.

Il titolo di questa mostra ci tuffa in modo naturale, anche senza accorgercene e senza che nessuno platealmente ci avverta che saremo immersi in una qualche esperienza ‘sensoriale’, nell’oceano della Tradizione più profonda.

Fabula traduce ‘mito’. Il titolo delle prime favole è Miti di Esopo. Delle brevi storie che hanno per tema gli animali Giorgio Manganelli, introducendo l’edizione BUR che reca le xilografie veneziane del 1491, dice che “Esopo non era un maestro, era piuttosto un eroe eponimo, il rappresentante riconosciuto di una provincia eterna, dove coabitavano, in arcaica uguaglianza, i grandi, gli umili, gli anonimi; se qualcuno era più specificamente rappresentato da Esopo, era appunto questa oscura plebe di senza nome, la cui esistenza si concentrava in un riso svelto, un effimero aneddoto ripetuto e meditato, perduto e ritrovato a distanza di secoli e di continenti.” Esopo stesso, schiavo di origine frigia, deforme, forse balbuziente, accusato ingiustamente di furto dagli abitanti di Delfi di cui aveva criticato i costumi, e quindi da essi precipitato nell’abisso al cui fondo era la fonte Castalia, ne faceva parte. A sorpresa, nel XIV secolo un dotto bizantino, Massimo Planude, lo accosta a Omero. A tali colpi di genio la Tradizione non è nuova: cogliendone il significato rivoluzionario, Manganelli lo fa proprio, e non solo per via dell’oscurità in cui le due figure si avvolgono affermando che a lui spetta, al pari di Omero, “la gloria mitologica dell’anonimato”. Intanto, infatti, è di inesauribile significato che la tradizione greca, per il suo ricamo, abbia fermato il capo del filo a questi due nomi. Qui è infatti deposta la “clandestina” ma irriducibile alternativa tra mondo della forza e mondo della parola; se nell’uno vediamo che la parola degli uomini tace per dare voce metallica alle armi e resta, testimone imparziale, solo quella del poeta, nell’altro di poeti non ce ne sono, ma la parola tocca anche a chi sembra ne sia stato tagliato fuori: gli animali. Se uno, Omero, è un “tempio insondabile” di nomi il cui prestigio di stirpe non impedisce ai loro portatori di comportarsi come animali né di subirne la sorte sacrificale, ripagati comunque tutti dall’ingresso nell’empireo dei ‘personaggi’, per l’altro, Esopo, solo gli dei hanno un nome, e pure l’anonimato non impedisce agli animali di comportarsi come uomini rivelandone quei ruoli e gesti fissi in cui li relega non già l’uso della parola, azzeccato, imprevedibile, spiazzante, bensì l’apparenza fisica dettata dall’appartenenza a specie diverse. Non si può certo dire che questi esseri non stiano nella natura: sono anche la natura. Eppure sentiamo che non si identificano con essa. Vi aderiscono, ma non vi si confondono. Il mondo animale di Esopo è forse davvero, come suggerisce Manganelli, la smagata metafora del mondo umano, “un sasso attentamente lavorato da un anonimo contadino, e piantato nel suolo accanto a una tana di lepri, tra rovi e ulivi.”

Perché, altrimenti, Socrate, congiunto idealmente all’autore delle favole da quell’espressione del lessico Suida: ‘sangue di Esopo’ (aisòpeion aima) per indicare l’ingiusta condanna a morte, si sarebbe portato solo quest’ opera in carcere, onde ingannare, con l’intenzione di metterla in metrica (Fedone 61b), l’attesa della morte? Sentiva forse per queste favole una segreta affinità, data dal dispiegarsi di un’innocenza umana tutta giocata da differenze irriducibili di carattere e situazione, e di cui il logos cerca incessantemente proporzione di rapporti? C’era qui qualcosa che aveva le sue ragioni e che la ragione inflessibile della polis non poteva comprendere? Evidentemente nella fabula sussiste un legame segreto che ci unisce agli animali, sia perché con la parola ce ne distinguiamo; sia, perché proprio grazie a tale differenza ci identifichiamo, trovandovi lo specchio parlante in cui ci riconosciamo esseri affetti dal malanno della presunzione.

Questa mostra – Fabula Animale  si è tenuta in una delle più belle biblioteche storiche romane. Tornando alla presunzione degli esseri umani, sono certo i libri, in particolare quelli antichi, insieme alla contemplazione della natura come insegna il sublime kantiano, che possono curarla. La comparsa, a un certo punto della storia culturale d’occidente, della Querelle des Anciens et des Modernes mostra che questa è una presunzione di tipo culturale, squisitamente relativa all’idea di sé che la cultura occidentale aveva coltivato in seguito a scoperte geografiche e rivoluzione scientifica, e tale da assumere i tratti di una pretesa superiorità dei moderni. Complesso di superiorità seriamente intenzionato a tagliare in due qualcosa che, non avendo forma circoscritta e costante – la Tradizione – non poteva prestarsi a tagli di sorta? Sembrava impossibile, a meno che, con raccapricciante operazione da vivisezionatore, non si intendesse appiattirla e disporla su di un’unica linea temporale che dal passato muovesse dritta dritta, senza mai voltarsi indietro, verso il futuro. A ben vedere, infatti, la Querelle esiste solo a questa condizione: che il tempo sia; e che sia il tempo, soprattutto quello che può speculare su un ignoto indefinito – il futuro – a decidere. Ad aprirci gli occhi sono, ancora una volta come con le favole di Esopo, gli animali: i loro comportamenti, che si riflettono nel nostro linguaggio come differenze a un tempo immediate e simboliche. Sono loro a venirci in soccorso, a farci toccare con mano quanto siamo ridicoli, soprattutto se, accecati dalla presunzione, stentiamo ad accorgercene.

Marc Fumaroli, nel suo saggio Les abeilles et les araignées del 2001, traccia una genealogia di questo soccorso simbolico che ci viene dagli animali, in particolare da una specie di dimensioni ridotte e significato immenso, le api. Essa, che risale a Omero, Virgilio, Orazio, passa a Erasmo e Montaigne, il quale scrive (I, 26): “le api vanno da un fiore all’altro, ma poi ne ricavano del miele, che è del tutto cosa loro, non più timo o maggiorana; lo stesso vale per ciò che si prende da altri: lo si trasformerà secondo il proprio intendimento per farne qualcosa di completamente personale.” Bene. Se la Tradizione ha agito nella sensibilità degli esseri umani sempre in questo modo, incessantemente offrendosi come prati e boschi fioriti al volo libero della mente, come fanno le api – presenza simbolica incomparabile nelle arti – nella loro scelta imperscrutabile, feconda e virtualmente infinita, per quale motivo, a un certo punto, si è creduto di doverla interrompere tagliandola in due e opponendo le due parti come fossero due nemiche? Si temeva forse che dalla Tradizione qualche entità potesse ergersi ironica e meditabonda, e intralciare le magnifiche sorti e progressive?

Il carattere pretestuoso di questa opposizione palesemente sbilanciata sarà colto in maniera inarrivabile da Jonathan Swift ne La Battaglia dei Libri (1696-1704).  Egli nota come la Querelle non nasca che dall’invidia dei Modernes per quel Parnaso abitato dagli Anciens, da cui essi si vedono eternamente estromessi. I tentativi di scalzare militarmente alcuni Anciens dalla loro posizione falliscono per la “pesantezza e per la forza centripeta” da cui i Modernes sono irrimediabilmente affetti. Si decide di combattere con quelle macchine da guerra che sono l’inchiostro e la penna: il difficile, per i Moderni, è avere la meglio sull’ironia degli Antichi, davvero imbattibile.

La situazione si sbloccherà grazie agli animali e a colui che ne intende la lingua simbolica. In un angolo della biblioteca, vicino a un’alta finestra, stava “un certo  Ragno”, la cui grandezza era data dal numero di mosche che divorava, le cui spoglie poi giacevano ai piedi di un’ immane dimora edificata dalla rete di filamenti che uscivano dalle sue viscere. In esso, volando, andò per sbaglio a incappare un’Ape che, dopo aver faticato alquanto a ripulirsi della filamentosa sostanza, dovette affrontare non solo le ire del padrone di casa per il dissesto arrecato, ma le sue arie di superiorità, fondata sulla “natura stessa” che i progressi nelle matematiche e l’abilità di sommo architetto rendevano ai suoi occhi incomparabile. Dinnanzi a tanta pretesa perfezione vantata dal Ragno, l’Ape racconta dei suoi semplici voli tra i fiori di campi e giardini cui essa, per il suo miele e la sua cera, nulla toglie di bellezza gusto e profumo; quanto all’esibizione di metodo matematico e architettonico di cui il Ragno fa così orgogliosa mostra, la materia di tanta costruzione resta vile, mentre tanto orgoglio nasce dalla negazione di ogni scambio con l’ambiente, di cui esso si limita a far egoistico uso lasciandone cadere le scorie.  Il confronto tra Ragno e Ape è già immediatamente eloquente, ma ancor più lo sarà quando Esopo – chi altri avrebbe potuto farlo? –  emergendo dal titolo del volume delle sue favole vi scorgerà la chiave per comprendere la falsa alternativa tra Antichi e Moderni. “Ditemi, vi prego, si può immaginare qualcosa che rappresenti meglio i Moderni del Ragno, qualcosa che ne colga meglio il fenomeno, il modo di ragionare e i paradossi? Esso parla a favore di sé stesso e dei suoi cari amici, i Moderni, mettendo in bella mostra i suoi tesori naturali, il suo grande genio e il suo talento di trarre da se stesso tutto quanto gli è necessario, senza sentirsi obbligato a soccorrere chicchessia, sciorinando la sua grande abilità architettonica e i suoi progressi nelle matematiche. Ecco invece l’Ape, avvocata di noi Antichi, cosa gli risponde: che se si giudicano genio e inventiva dei Moderni da quel che hanno fatto non si può non morire dal ridere; fate pure i più bei progetti del mondo, con tutta l’arte e il metodo possibili, ma se quel che usate non viene fuori che dalle vostre sporche viscere o dalle fisime dei vostri cervelli moderni, tutto ‘sto grande progettare non finirà che in una tela di ragno la quale, se non verrà distrutta sarà solo per dimenticanza, negligenza, oscurità spirituale del luogo che essa si è scelta. Ecco qua tutto quel che ci si può aspettare dai Moderni, aggiungendo anche una buona dose di trucchi e trovate malvage, che ben si accordano all’abbondante riserva di veleno di cui tanto si vanta il signor Ragno e che lui, proprio come i Moderni, pretende di non dover a nessuno, traendola dalle vittime che si fa nel corso del tempo. Quanto a noi Antichi, siamo contenti, proprio come l’Ape, di non aver nient’altro che le nostre ali e la nostra voce, e cioè le nostre contese poetiche e il nostro linguaggio; tutto quel che portiamo da fuori ci costa lavoro, ricerche, transiti a non finire nella natura delle cose, ma invece di dare in cambio dei veleni, riempiamo le nostre cellette di miele e di cera, offrendo al genere umano quel che ha di meglio e di più nobile: dolcezza e luce.”

Monica Ferrando

7 dicembre 2022