Ginevra Bompiani

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Siccome non m’intendo di pittura, per capire qualcosa di questa bellissima mostra, procederò per indizi (del resto Andrea Fogli dice: Bisognerebbe parlare di tracce e non di “Forma”).

Ma cosa c’è da capire? Tre artisti si incontrano in tre luoghi: una biblioteca, una teca, la carta.. Monica Ferrando mi risponde così: “la mostra è nata dal fatto che tutti e tre facciamo cose su carta; e che cosa c’è di meglio per esporre cose su carta di un ambiente che abbia delle belle teche?

Detto così sembra molto semplice; in realtà, guardandole, si avvertono tanti orditi e trame che passano dall’una all’altra teca, dall’uno all’altro artista.

Per esempio, il rapporto multiplo che, nell’opera di ciascuno, intrattengono pittura e scrittura.

O il senso del limite. E dell’omaggio.

O il gioco di specchi fra inchiostro e colore..

Ora vorrei dire che cosa a me appare comune fra queste opere e questi artisti, cominciando dal rapporto pittura-scrittura.

Poiché la pittura è nata millenni prima della scrittura, è come se ogni volta che s’incontrano, la scrittura allungasse una mano verso la pittura per trarla dalla preistoria, e intrappolarla nel presente senza intaccare la sua primordialità.

E il luogo in cui avviene questo inseguimento-danza fra le due, la loro sala da ballo, fosse la carta. In altre parole, mi pare che la carta sia la non-roccia, il ‘levare’ della forma dalla materia.

Dice Monica Ferrando: “La pittura non esige commenti, e forse nemmeno titoli: è stata infatti la forma primordiale della scrittura. La pittura testimonia di una misteriosa contiguità nella cesura tra l’essere umano e la natura che lo comprende. Forse per questo, costantemente, essa ci ricollega alla preistoria e all’infanzia.

E Andrea Fogli: “Sottratto al tempo e allo spazio, nel ventre della grotta della tua mano nasce il racconto. Lì è il bisonte, la preda immaginaria, un “bisonte” che oggi è dentro l’uomo, nascosto negli atti della vita, nella storia non scritta, nella cecità che ci illumina, tra le righe.”

In altre parole, la scrittura strappa la pittura a Lascaux. E la pittura riporta la scrittura nel luogo dove non è mai stata.

Sebbene ogni artista abbia la sua danza, questa umida nebbia (il muro umido della grotta, la pasta umida della carta) è la temperie che tutte le teche proteggono.

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Ma vi è un altro punto d’incontro fra scrittura e pittura, ed è la calligrafia.

Ognuno di questi artisti ci lascia campioni della sua scrittura, discreti, quasi occasionali compagni del disegno, mentre in realtà la calligrafia è la padrona di casa del taccuino (o diario, o libretto). Insomma della pagina.

Anche nella calligrafia dei tre artisti ci sono punti comuni: sono grafie piccole, ordinate, tendenti alla continuità.

Ma tra loro vi sono differenze che un grafologo noterebbe subito.

La scrittura di Marilù Eustachio, per esempio, sembra la più unita, disciplinata, melodica. Eppure il suo ductus contiene una cesura, che di solito si produce verso metà della parola. E’ pressoché immancabile, come se la parola, sul finire, riprendesse fiato. Eppure, nel suo disegno, questa cesura non si avverte. Anzi, quasi sempre una griglia viene a ricoprirlo, come se volesse nascondere ogni soluzione di continuità. O come se il fondo fosse affiorato per nascondere le figure e la loro discontinuità naturale.

Invece la scrittura di Andrea Fogli ha una leggera ondulazione, quasi la mano cadesse ritmicamente attirata dal riposo. Ma la sua pendenza è verso destra (la pendenza ottimista) in caduta, come se cadere fosse una conquista.

La scrittura di Monica Ferrando è trattenuta e compatta: sembra che un vento la spinga indietro e lei avanzi di bolina. Questa decisione, o battaglia contro il vento, mi sembra di ritrovarla in tutta la sua pittura, così come rivedo nel disegno di Fogli quel piccolo precipizio verso il basso che contiene il buio. Le sue figure s’inabissano in un pozzo, che il foglio non ritrae, ma che le avvolge di ombra.

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Un altro tratto comune ai tre artisti è l’omaggio. Ciascuno di loro rende omaggio a un artista, a uno scrittore.

Marilù rede omaggio a Tiepolo e Hoffmansthal, Monica a Poussin e a Benjamin, Fogli a Rembrandt, Celan, Baudelaire.

L’omaggio non è solo un inchino a un artista del passato, è un inchino al passato stesso. Misteriosamente o segretamente, tutta la Mostra s’inchina al passato e ne esala il profumo.

Che cosa ci può dare il passato che il presente non ci dà? Forse la certezza che il mondo esiste. Questi tre artisti mi sembrano occupati ad annunciare, o ricordare, l’esistenza del mondo. Non necessariamente la sua permanenza. Non dicono: il mondo c’è ancora. Nemmeno: c’è stato. Ma il mondo esiste perché è stato (che altro significa “cogito ergo sum”?).

Ognuno con la sua cifra. La cifra di Marilù a me sembra la discrezione (anche nel senso di gerarchia fra oggetti diversi). I lievissimi Pulcinella del Tiepolo, la grazia estrema dei loro gesti, sono bianco vaporoso avvolto da una linea. Oppure oscurati dal tratteggio, che porta il fondo in superficie. O macchiati di colore, giallo, rosso, azzurro. Una sola macchia, una manata di colore che non esalta la faccia, la figura, ma direi che la spinge, o la respinge, da dove è venuta, nel suo passato.

La cifra di Fogli, direi che siano l’ombra e la caduta.

La cifra di Monica mi ha sorpresa: secondo me è il tripudio. Il tripudio del colore, il tripudio dell’inchiostro di china, il tripudio delle figure di Poussin, mitiche o solo festose.

Così ciascuno di loro guarda il passato. E noi, guardandolo, ne facciamo parte.

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E il presente dov’è? Mi domando se non è nel limite.

La figura (forma, icona o fantasma) si presenta affacciata a una serie di balconate: la Biblioteca le racchiude insieme. Poi le teche le suddividono, mescolandole e accostandole. Poi la cornice, antica o vecchia, quelle che uno si trova in casa, lasciate dai nonni. Poi il passepartout. Infine quel piccolo rialzo della carta che chiude l’immagine, e infine il bianco che la circonda. Da un momento all’altro ci si può aspettare che tutti questi balconi si richiudano e le immagini tornino a nascondersi.

Il rispetto del limite, della misura piccola, è soprattutto di Fogli ed Eustachio.

Ferrando riempie la pagina di movimento e colore, e la supera in un enjambement. La conchiglia s’interrompe e riprende oltre la pagina che diventa piuttosto una violabile frontiera.  Anche l’autoritratto, per Monica Ferrando, si sdoppia nello specchietto del trucco. L’autoritratto è un trucco?

Fogli, per superare il limite, pratica lo sdoppiamento della figura, il numero 2. La piccola misura si immensa sdoppiandosi : “questo è ciò che la piccolezza vuole dire, aprendoti da lì lo spazio più vasto che tu puoi immaginare.” E lo spazio più vasto che puoi immaginare è quello “sconfinato, (che) si raccoglie nel palmo della mano, che tu richiudi solo per sottrarre bellezza e silenzio alle macerie.” Lo spazio nel palmo della mano, è forse la cifra comune a tutta la Mostra.

Il suo motto è invece nelle parole allineate da Marilù, che rubano la forma alla poesia per trasformare l’interruzione in ritmo: “in libertà     in misura     in costrizione”. Ritroviamo forse qui quella cesura che avevamo notato nella sua scrittura: la parola riprende fiato prima di finire, la pittura si nasconde per apparire. E’ così che il limite protettivo diventa l’ostacolo da superare con un balzo, o col volo leggerissimo e preciso della farfalla.

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In un bellissimo libro “La vita delle piante”, Emanuele Coccia costeggia, senza volere, alcune osservazioni degli autori, aiutandoci a capirle meglio.

Per esempio quando parla del seme (di cui Monica dice: Per questo la pittura è un giardino; germogliato, concordano gli antichi Cinesi, da un minuscolo granello di senape.), dice Coccia che le piante sono una mente che si esercita nella formazione di sé. “Per esistere la pianta deve confondersi con il mondo e non può farlo che nella forma del seme

Il seme non è dunque solo la minuscola forma primitiva del vivente, ma il suo perfetto rapporto col mondo.

Un rapporto che, sempre ascoltando Coccia, passa dalla relazione contenente-contenuto “Respirare significa fare questa esperienza: ciò che ci contiene, l’aria, diviene in noi contenuto e, per converso, ciò che conteniamo diventa quel che ci contiene. … Le piante hanno trasformato il mondo nella realtà di un respiro”.

Se guardiamo ora le teche tenendo a mente la forma vegetale dell’esistenza, le vediamo rovesciarsi, come se esse stesse fossero contenute nelle figure che sembrano proteggere e tutti i limiti e le cornici fossero non più la ‘mise en abîme’ delle opere, ma l’aria che respirano. Ed è proprio così: il dentro e il fuori diventano la continua metamorfosi o anamorfosi della figura nel suo limite, e del limite nella sua figura. Ed è proprio questo il loro rapporto con la biblioteca, cioè il mondo.

Capiamo anche meglio perché Monica parli di un ‘giardino’ e Fogli di un ‘bosco’. E la farfalla non sia che un’ospite del mondo vegetale, così come la pittura e la scrittura formano insieme un composto, – ora specchiandosi, ora sovrapponendosi, ora mescolandosi, ora confondendosi, – che riporta la vita alla sua forma primitiva, quella in cui “l’assenza di movimento non è che il rovescio dell’adesione integrale al loro ambiente e a quanto succede loro.” E capiamo perché queste opere immergano le loro radici nella pagina, nel libro, nel taccuino,  nella cornice, nella vetrina, e come la successione dei limiti sia semplicemente la libertà del respiro.

Ginevra Bompiani                                                                                                             20.12.18