Francesco Donfrancesco

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Nei Musei Vaticani ho visto una statua attribuita a Prassitele, un Apollo chiamato sauròktonos. E’ un Efebo in posizione eretta, che in origine impugnava un dardo: guidato dallo sguardo, il dardo era puntato verso il tronco di un albero, su cui si vede ancora, immobile, una lucertola. Il dio solare, però, non vuole ucciderla, come lascia credere l’attributo aggiunto al suo nome: o almeno, è questo che io penso, perché una lucertola vedo piuttosto l’anima in cerca di luce, che si ferma, raggiunta dal dardo solare, e si espone ad esso in estatico abbandono. Sarebbe cioè l’anelito dell’anima alla luce, e il gratuito dono della luce divina, il mistero, l’evento insieme umano e divino che l’antica statua celebra: quel reciproco contemplarsi – qui dell’efebo e della lucertola – in cui riconosciamo l’essenza stessa di una mistica della luce.

Ho ricordato questa statua, e le riflessioni che già un tempo mi aveva suggerito, mentre guardavo un pastello di Monica Ferrando, dove una fanciulla, che appena si affaccia all’immagine, contempla la luce e le ombre incipienti di un tramonto, oltre un basso muretto su cui è posato u ncestino coperto da un panno: entrambi, fanciulla e cestino, profilati di luce. Al di là, l’estesa campagna, che si protende fino alle colline, contornate anch’esse dall’ultima, esaltata luce del sole, Tutto è immobile: tutto è soltanto sguardo, un guardarsi del cosmo, un ultimo sguardo struggente, prima che tutto si spenga nel buio.

La piccola, umile lucertola dei muretti scaldati dal sole mediterraneo è un’animella innamorata della luce; e lo è i girasole dei nostri campi, al quale spesso Ferrando ritorna, interi campi di girasoli estatici, trepidanti, una folla di fragili girasoli che le ombre minacciano. Una fanciulla è seduta nel campo, la veste bianca illuminata da una luce che sbianca anche il cielo, la testa lievemente reclina, lo sguardo in basso. La luce è tornata di nuovo, dissolve lentamente l’oscuro timore della notte, torna dai testimoni della sua assenza, carezza dolcemente le teste che la malinconia ha piegato. Non sono i girasoli recisi di Van Gogh, abbacinati per sempre dalla luce, diventati ormai identici al dio che contemplavano: non c’è, in questi di Ferrando, la coibenza di un’idealizzazione che fa coincidere amante e amato, non c’è la traccia di un sole fiammeggiante, di una luce che distrugge la differenza, di un’imminente devastazione. Le immagini di Ferrando non nascono da una scissione che esalta, ma dal morbido coesistere di luce e tenebre. Anche quando la luce sembra più alta, e più alto lo stupore, come in un declivio di ginestre assolate oltre il quale il Mediterraneo si esalta fino al cobalto; proprio allora, da due piani e u cespuglio anneriti, affiora sommesso un controcanto, che annuncia il prossimo declino, l’inevitabile fine. La luce trascorre lentamente, i corpo si riveste di luce, per un attimo è luce esso stesso, ma poi la luce, così come lo aveva raggiunto, lo abbandona: il corpo, che era caldo, ora si spegne, e rimane in attesa. Un’attesa fiduciosa, che accompagna un lutto consumato ogni giorno, senza residui.

Quando la luce dell’alba torna a rischiarare un Interno di atelier, trova seduta una donna, che rivolge alla finestra non soltanto l sguardo, ma il corpo proteso, nuda, un panno bianco abbandonato sulle cosce, il mento posato sulle mani congiunte, che serrano lo schienale della sedia. La luce rosata dell’alba disegna i suoi profili – l’aurora dalle dita di rosa, come Omero la chiamava. Lei si è appena accorta della tenue luce che ormai filtra nella stanza: la torsione del corpo manifesta la sorpresa, e l’immobilità l’incanto. La donna contempla, rapita, la luce dopo una lunga, anelante attesa; la luce la disegna, la distingue dalle tenebre in cu iera immersa, ne fa apparire i corpo appassionato.

Altre volte, quando la luce chiara dell’alba raggiunge l’atelier che sembra deserto, trova ad accoglieva una candela lasciata sul davanzale, e un panno rosa abbandonato sulla sedia – tracce di un’attesa non interrotta, umile, silenziosa.

Simile a quella della vergine saggia del Vangelo, la cui lampada rimane accesa come il suo cuore, mentre nel buio anela allo sposo.

In un altro Interno di atelier, infine, guardiamo una giovane pittrice al lavoro. La donna è immersa nella penombra: la luce, che entra da una porta finestra alle sue spalle, si riflette sul sguancio, profila il corpo e il volto della donna, e si espande, ormai attenuata, sul grande foglio disteso sul tavolo. La luce, che la pittrice no guarda direttamente, è il suo sostegno, l fonte del suo gesto, che ne viene dolcemente guidato, a segnare la carta illuminata. L’artista è mediatrice, sta nel frammezzo: fra la luce originaria, cui si affida e la luce indiretta, riflessa nell’opera. E’ una luce d’alba, che può soltanto attendere come una grazia, senza desistere scoraggiata.

Ferrando ci accompagna in quel luogo dove luce e tenebre s’intessono visione e oscuramento: come nella danza eterna di sole e luna, cielo e terra, uomo e donna, vita e morte. Un’immagine dopo l’altra, la sua pittura lascia apparire un mondo che sembra generato, come in un mito cosmogonico, dai passi di una coppia che danza – si scioglie, si cerca, si sfiora con le mani. Scopriamo quella coppia in un pastello, dove la luce incipiente di un mattino estivo scioglie in un addio i gesti e gli sguardi, che certo torneranno a cercarsi; o in un dittico, in cui le due figure sono esiliate agli estremi di un’ampia radura. L’ombra di un coltivo smosso e quella di un bosco disegnano la curva del prato, illuminato da un sole basso – i fili d’erba in primo piano scintillano, toccati dalla prima luce. Come in un arco, il prato sembra tendersi fra le due figure – ciascuna intenta ai propri moti, anche se una sembra già accorgersi dell’altra, e rivolgersi a lei – in un presagio di prossima unione.

La sua pittura nasce in questo luogo immaginale; in questa Arcadia prende forma la sua elegia. I paesi che a un primo sguardo ci appaiono familiari, si rivelano poi popolati di presenze umane insolite, animate, i cui gesti evocano suoni di voci lontane, o silenzi sospesi, o richiami. Sono figure accolte in una natura ampia, di una luce che tutto avvolge e permea, piccole, mosse da passioni ignote – come nel piccolo Orpheus -, il sui impeto si intensifica nella grandezza impassibile dei luoghi. La natura si manifesta al di là degli eventi umani, eterna, ma proprio questo suo carattere la lega ad essi intimamente, perché l’eterno evoca i caduco, di cui afferma la malinconica, dolente fugacità, mentre lo eleva all’eterno nell’attimo, e lo affida alla trasfigurazione della memoria immaginale. Ferrando ha ritrovato questa antica vocazione della pittura a porsi in quell’incrocio dove tempo ed eterno di addensano in un medesimo punto, nel kairos, in un momento che la memoria riconosce, e lentamente trasforma in un evento perenne, mitico.

Ferrando ha conosciuto la nekya, quella discesa all’Ade in cui  il soggetto perde l’abituale preminenza, e si indebolisce la prospettiva dominante della vita naturale, o sociale, e le illusioni della volontà artefice, per trovare una guida negli invisibili, e i centro d’ogni interesse nell’anima, nella sua destinazione nell’oltre; e ne è tornata con la memoria di immagini lungamente, amorosamente contemplate, che vanno prendendo una nuova forma in virtù della sua pittura orfica. Ferrando non guarda più alla storia della pittura, perché proprio la storia è quanto la sua pittura nega; mentre arriva a conoscere le immagini che la pittura ha disseminato nei secoli come eternamente presenti nel mondo cui appartengono, il mondo immaginale in cui gli attimi del tempo hanno trovato la loro rappresentata eternità. In quel mondo torna ancora e sempre l’Orfeo, per trarne non le immagini, che a quel mondo sono destinate dal quale non possono tornare se nn nel ricordo, ma il suo canto struggente, che le fa ancora echeggiare nel tempo, eternamente.