Giorgio Agamben

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Il gesto archeologico di Monica Ferrando è simmetricamente opposto a quello della grande avanguardia del Novecento: se questa aveva proceduto attraverso una meditata, quasi filologica rottura con la tradizione, Monica Ferrando sembra riannodarne pazientemente i fili spezzati, con altrettanta, implacabile filologia, i miti e le ombre. In entrambi i casi tuttavia, il gesto archeologico, che rompa o riannodi, definisce la sola via di accesso al presente. Per questo il mito (Kore e i misteri eleusini, al centro di una recente mostra alle Cartiere Vannucci di Milano), attraverso una vibrante ripresa della natura morta e dell’interieur, si fa iniziazione alla vita e al quotidiano. L’Arcadia, evocata nei densi paesaggi della Tuscia, diventa quasi il paradigma di un’altra possibile politica; la figura umana ritrovata e incessamente perduta, il luogo di uno scambio vitale fra l’arcaico e il presente. E per questo, ridisegnando come ogni artista la propria genealogia, Monica Ferrando non smette di fare i conti con i suoi maestri- da Poussin a Von Marées, da Ruggero Savinio a Avigdor Arikha.

in: L’arte non è cosa nostra, Skira, 2011